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Si può disubbidire alle leggi? Se si è buoni democratici la risposta scontata sarebbe sicuramente un bel “no”.
Si può disubbidire alle leggi? Se si è buoni democratici la risposta scontata sarebbe sicuramente un bel “no”.
Obbedire, in una società democratica, giuridicamente organizzata, è prima di tutto un dovere. Tuttavia, ci sono situazioni in cui la disobbedienza diventa un valore, oppure può essere una necessità. Se guardiamo alla storia troviamo infatti casi di disobbedienza che sono diventati “legittimi”, agli occhi del mondo. Si pensi alle “disubbidienze” di Gandhi o di Martin Luther King. O alle disubbidienze al nazifascismo, alle leggi razziali, ai regimi coloniali. Sono tutti esempi fulgidi di chi ha disobbedito alle regole, e non si fa fatica a comprendere le ragioni di quelle disobbedienze civili. Il discorso si fa difficile però quando pensiamo all’oggi. Alle pratiche di disubbedienza discutibili o odiose come l’imbrattamento di statue di personaggi controversi, di opere d’arte nei musei e di tante altre azioni al limite tra protesta e disubbidienza. L’argomento è abbastanza delicato, come s’intuisce. E ragionarci intorno non fa male, anzi è utile alla convivenza civile. Lo affronta Federico Zuolo, filosofo, professore di Filosofia politica all’Università di Genova, in un libro appena pubblicato ( “Disobbedire, se, come quando”, Editori Laterza, pagine 142, euro 17) con cui fa una precisa analisi su una pratica da sempre centrale nella vita delle democrazie. Zuolo chiarisce subito che perché una disobbedienza sia civile presuppone tra le altre cose che non sia violenta. E spiega che la non violenza ha una sua storia politica e culturale, lunga e nobile. Basterebbe citare gli esempi fatti poc’anzi, di Gandhi e Luther King.
Esempi che ci dimostrano che non violenza non significa rinuncia. Anzi, è forma potente e sottile di strategia politica, con ricadute positive nel lungo termine. Ci sono poi forme di disobbedienza operativa, come le definisce Zuolo. A livello internazionale, queste forme di disobbedienza sono conosciute come direct actions che vengono messe in atto di fronte al fallimento delle azioni tradizionali di protesta legale. Gli attori di queste azioni, spesso agiscono nell’anonimato, ma poi rivendicano le “disobbedienze” nei loro siti. L’opinione pubblica, giustamente fatica a comprendere le ragioni e le specificità di alcune di queste iniziative, tantomeno le giustifica, riducendole tuttalpiù a un generico bisogno di visibilità.
La conclusione di Zuolo, è che la disobbedienza può essere moralmente giustificabile solo quando le normali forme di rivendicazione democratica non funzionano. Rimane da stabilire, e non è cosa di poco conto, in che modo si possa valutare la consistenza e la bontà di una causa per cui disobbedire. In particolare, pare ovvio che la cosa prioritaria sia verificare che la disobbedienza abbia una buona motivazione sostanziale, ovvero che sia fatta per una ragione valoriale significativa.