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I licenziamenti collettivi, determinati dalle difficoltà economiche delle aziende, sono, dunque, legittimi. Dovrebbero finire, così, senza senso e impossibili, i propositi di un referendum abrogativo lanciato alcuni mesi fa, ma scomparso, curiosamente, dal dibattito politico, come un grande obiettivo, dalla coalizione Conte-Landini Schlein.
Il vituperato decreto aveva mandato in soffitta l’art. 18 dello Statuto, così come era stato concepito nel 1970, per i lavoratori che sarebbero stati assunti da quel momento in poi. Per la Suprema Corte, insomma, la disciplina che in questi anni è stata oggetto di polemiche e di numerosi ricorsi in Tribunale, è pienamente legittima.
La questione è arrivata davanti ai giudici costituzionali dopo un caso sottoposto al giudizio della Corte d’appello di Napoli: i giudici hanno dovuto constatare l’impossibilità di decidere su un licenziamento collettivo di lavoratori in esubero. Non c’erano più le condizioni, per i lavoratori assunti con il contratto a tutele crescenti, del reintegro nel posto di lavoro ma, a norma del Jobs Act, solo l’indennizzo compensativo del danno subito. Il reintegro nel posto di lavoro perduto vale, secondo il decreto, solo per i licenziamenti nulli, discriminatori e disciplinari ingiustificati. In tutti gli altri casi è prevista l’indennità economica che va da un minimo di sei a un massimo di 36 mesi di stipendio. Una tutela pecunaria che la stessa Corte ha definito “non inadeguata”. Come per altre sentenze, la Corte suggerisce al Parlamento di rivedere in termini generali “ la materia, frutto di interventi normativi stratificati che investono i diversi regimi di applicazione”.
La sentenza dovrebbe aver posto fine a ogni polemica e a ogni possibile sortita politica della citata coalizione Conte-Landini- Schlein.
La sentenza della Corte Costituzionale chiude ogni discussione sugli aspetti giuridici del Jobs Act e apre, però, l’esigenza di affrontare, accettandone le conseguenze, i radicali cambiamenti avvenuti nei sistemi economici e nel connesso mercato del lavoro.
L’art. 18 è un punto centrale dello statuto dei lavoratori, voluto e portato all’approvazione, poco prima che morisse, dal ministro socialista, Giacomo Brodolini. Nelle condizioni date, nel 1970, di scarsa tutela dei lavoratori e del loro diritto alla libertà sindacale per difendere la propria dignità, l’art.18 era lo strumento per difendersi da soprusi e discriminazione in fabbrica. Oggi la situazione nei posti lavoro è nettamente cambiata: i fenomeni discriminatori sono rarissimi, il rispetto dei diritti, della stessa dignità umana di chi lavora è un dato acquisito.
E’ cambiata la realtà della fabbrica, è cambiata la realtà dell’economia e dei sistemi di lavoro fuori del tradizionale luogo della fabbrica, dei posti di lavoro: cambiamenti determinati dalla trasformazione della logica capitalistica. Un tema, questo, che Aldo Schiavone affronta nel suo saggio “Sinistra”: siamo immersi- egli scrive- nella terza, grande rivoluzione strutturale del mondo contemporaneo. Dopo quella agricola e quella industriale che generarono le città, le classi, la produzione, la trasformazione tecnologica ha mutato i paradigmi sociali in profondità. Si è ridotta la quantità di lavoro manuale necessario per produrre merci per lo più immateriali, si è ridimensionata la stessa classe operaia, si sono costruiti, con le nuove tecniche, rapporti diversi con i nuovi lavori, nello stesso modo in cui l’avvento del capitale industriale ha fatto scomparire i contadini dalla scena della grande storia.
Cosicchè la stessa classe operaia ha perduto centralità e valore sociale ed economico e, quindi, la capacità di instaurare rapporti sociali costitutivi di modernità e di riflessi positivi nella crescita civile. L’altro elemento che caratterizza i lavori moderni è la individualizzazione competitiva che determina la debolezza e la fluidità dei legami che separano, distinguono, non creano linguaggi e trame sociali comuni, forti. Occorreva prendere atto di questi radicali cambiamenti nell’economia e nel mercato del lavoro.
Da questa percezione nasce il Jobs Act, una riforma del lavoro pensata da una sinistra riformista, concepita da intellettuali di sinistra, tutt’altro che complice del padronato che sfrutta il lavoro: un diritto al lavoro che prometteva l’inamovibilità dall’assunzione alla pensione era pensabile nell’economia manifatturiera del novecento ma non era più in grado di mantenere le sue promesse in un’epoca di maggiore volatilità e globalizzazione dell’economia, ma anche del ciclo di vita dei prodotti e dell’impresa. In un sistema produttivo in cui alla catena di montaggio si sostituiva l’economia della conoscenza e della digitalizzazione, il cambiamento, insomma, dei sistemi lavoro. Infine, una considerazione stringente dell’economista Sergio Ricossa: la contabilità è la base dell’economia politica.
Un’impresa che non crea valore, anzi lo distrugge, se i suoi ricavi sono stabilmente e largamente inferiori ai suoi costi. Come fa un’azienda o un settore a sopravvivere se distrugge valore? Servirebbero sussidi continui da parte dello Stato che dovrebbero colmare, anno per anno, lo squilibrio distruttivo tra costi e ricavi. Saremmo allo statalismo di cultura cinese, russo o di paese autoritario senza alcuna logica di mercato.
E’ il caso di ricordare alcuni punti ispiratori della legge: è stato calcolato che il Jobs Acts ha prodotto oltre un milione di nuovi occupati e, sul piano della civiltà, ha posto fine alla barbarie cui erano sottoposte le donne con le dimissioni, firmate in bianco, dal lavoro nel caso di attesa di un figlio. Il principio a cui si ispira è quello della flexcurity che mette insieme la flessibilità dei contratti di lavoro a tempo determinato a quelli a tempo indeterminato evitando che, per le imprese, un contratto a tempo indeterminato sia un legame sempiterno anche quando le condizioni di mercato non lo permettono, garantendo la sicurezza, per il lavoratore o i lavoratori che vengono licenziati, con i sussidi di disoccupazione di carattere universale finanziati dalla tassazione appositamente incrementati dal Jobs Act e con l’indennizzo – come ha appena deciso la Corte Costituzionale- da 6 a 36 mesi di stipendio. Insomma, protezione dei lavoratori per se stessi e non per i posti lavoro che risultassero insostenibili da aziende e settori industriali in crisi che, dunque con creano valore.
La vicenda delle polemiche sollevate sul Jobs Act dalla sinistra radical-massimalista, populista e pseudo-sindacale, fuori dal tempo che viviamo, dovrebbe, a questo punto, registrare una sola parola: FINE.